Taccuino tedesco/2 – Sull’isola di Langeoog

0
6270

Per la prima parte del taccuino LEGGI QUI

26-29 luglio

Il mattino di lunedì 26 luglio parto da Brema per raggiungere Bensersiel, luogo termale costiero affacciato sul mare del Nord. Parcheggio e prendo il traghetto per l’isola di Langeoog, dove le auto non possono circolare: è una delle sette Ostfriesische Inseln, le Frisone Orientali, insieme a Borkum, Juist, Norderney, Baltrum, Spiekeroog e Wangerooge, la prima a esser colonizzata nel XIV secolo. L’arcipelago, situato a pochi chilometri dalla terraferma tra gli estuari dei fiumi Ems e Weser, appartiene al Land Niedersachsen o Bassa Sassonia. Queste sette piccole isole si sono formate nel V secolo a.C. per l’erosione di un antico cordone sabbioso, sporgono dalla superficie marina per non più di venti/trenta metri e ricadono nel Nationalpark Niedersächsisches Wattenmeer, il Parco Nazionale del Wattenmeer, parola quest’ultima che identifica le acque del mare comprese tra le isole e la terraferma.

Langeoog (“isola lunga” in Plattdeutsch, il dialetto locale), terzultima dell’arcipelago, ha una forma allungata che può ricordare, in scala minuscola e in forma rovesciata, quella della Puglia; copre un’area di quasi venti chilometri quadrati, conta poco meno di duemila abitanti e il suo perimetro è, come per le sue sei sorelle, continuamente modificato dal vento e dalle maree: all’erosione del versante occidentale corrisponde una maggiore estensione dell’area sabbiosa sul lato orientale (il movimento verso est delle isole è di alcuni metri all’anno).

La sua spiaggia, dalla sabbia chiara, ha una lunghezza di circa quattordici chilometri, le sue dune raggiungono anche i venti metri di altezza (la più alta è la Melkhörndüne, al centro dell’isola) e il suo mare è freddo, ma non così freddo come mi sarei aspettato. Alla mia prima esperienza nel Mar del Nord ero pronto a un bagno in acque gelide, mentre, complice forse il cambiamento climatico o alcuni giorni particolarmente clementi dal punto di vista del meteo, le ho trovate temperate tanto da starci piacevolmente a bagno nelle ore di sole. All’esterno, il sole, quando presente, mordeva (era necessario mettersi la crema solare per evitare scottature), rendendo il contrasto termico non così pungente. L’acqua del mare, in compenso, è più salata. Il gabbiano reale (Silbermöwe) è il simbolo dell’isola (spesso vengono sfacciatamente a mangiarti il panino sulla spiaggia o il gelato sulla passeggiata), ma il Parco Nazionale ospita anche altri uccelli come il fraticello (Zwergseeschwalbe), la beccaccia di mare (Austernfischer), l’oca colombaccio (Ringelgans) o la volpoca (Brandente). Un altro simbolo, questa volta inanimato nonché punto di riferimento di Langeoog, è la Wasserturm, una torre dell’acquedotto che assomiglia a un faro, ma guai a dirlo sull’isola, qualcuno vi guarderebbe di traverso. Costruita nel 1908 e più volte rimodernata dopo aver smesso le proprie funzioni, è oggi un punto panoramico che dall’alto dei suoi quindici metri permette una vista a 360 gradi sull’isola.

Ci sono trentacinque chilometri di piste ciclabili e le spiagge sono disseminate di Strandkorb, letteralmente “cesto da spiaggia”, la tipica poltrona che si vede sugli arenili del Mare del Nord e del Mar Baltico: rivestita esternamente di vimini e internamente di tessuto impermeabile, ha una copertura (qui dritta, sul Baltico arrotondata) che permette di proteggersi dal vento, dalla sabbia e dalla pioggia che periodicamente cade anche d’estate dal cielo meteoropatico di questo lido continentale-atlantico. Si rintracciano prototipi di Strandkorb tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, ma il primo vero prototipo, chiamato ancora Strandstuhl (“sedia da spiaggia”), compare il 15 giugno del 1882 a Warnemünde, stazione balneare di Rostock, per opera di Wilhelm Bartelmann ed era originariamente pensato per una signora affetta da reumatismi che non riusciva a trascorrere molto tempo in spiaggia.

Al mattino, durante il ritiro delle acque (che crea correnti pericolose, motivo per il quale si dovrebbe fare il bagno solo mentre il livello del mare aumenta), la spiaggia ha un fascino assoluto: è ampia, quasi smisurata, spazzata dal vento che crea piccoli turbinii di sabbia come nel deserto, con la linea dell’orizzonte che alterna le strisce blu del mare a quelle ocra dell’arena, mentre il cielo, raramente limpido per l’azione del vento, è perennemente solcato da nuvole e cirri.

Al largo di Ostende, la punta orientale dell’isola, una gita in barca permette di vedere lo spettacolo delle Seehundbänke, una delle colonie più popolose di foche (in tedesco Seehunde, “cani del mare”) di tutto l’arcipelago.

Langeoog vive di atmosfere. L’aria e l’acqua, i colori accesi e freddi, le villette signorili, le tipiche case in mattoni rossi che adornano l’isola, le passeggiate lungo le dune, le escursioni in bicicletta, la cucina di mare di chioschi e ristoranti: il pesce fritto (Backfisch); le aringhe crude, affumicate, salsate; l’Heringsstipp (aringhe al sale con cetriolini sottaceto, mele, erbe, spezie con salsa di maionese, panna o latte) con patate al forno (Ofenkartoffeln); il panino ai gamberetti del Mar del Nord (Nordseekrabben); il filetto di scorfano (Rotbarschfilet) con patate arrostite in padella (Bratkartoffeln). C’è anche il Labskaus, manzo salato o in scatola che viene tritato insieme alle patate lesse, alle cipolle, alla barbabietola e all’aringa. E il gelato italiano, ben rappresentato dalla Boutique Pinese.

Durante il soggiorno all’Hotel Bethanien, che consiglio (è confortevole, luminoso e offre un’ottima colazione), leggevo Helgoland di Carlo Rovelli, fantasticando su quest’isola «spoglia, estrema, battuta dal vento», non lontana ma irraggiungibile da Langeoog (ogni isola ha un suo punto d’imbarco sulla terraferma), dove, nell’estate del 1925, un ragazzo di nome Werner Heisenberg, all’epoca ventitreenne, «in giorni di agitata solitudine», ha posto le basi per costruire «la struttura matematica della meccanica quantistica, la “teoria dei quanti”, forse la più grande rivoluzione scientifica di tutti i tempi», sollevando «un velo fra noi e la verità; oltre quel velo è apparso un abisso».

___§___

Contributi fotografici dell’autore

 

 

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

Previous articlePisa: il tartufo bianco non si trova (-90%)
Next articleUn’antica lezione per l’oggi
Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here