Cantina La Versa e il futuro (roseo) di un marchio storico

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Al Vinitaly, verso l’orario di chiusura della Fiera, il padiglione della Lombardia è sempre affollato: frotte di addetti ai lavori, o presunti tali, si concedono il primo aperitivo della serata a suon di bollicine, in attesa dello Spritz di prammatica da sorbirsi successivamente in piazza. Ma sono soprattutto gli stand delle cantine della Franciacorta ad essere animati; al contrario, nell’area dedicata all’Oltrepò Pavese, si coglie un’aria fin troppo tranquilla, quasi sonnacchiosa.

Eppure non dovrebbe essere così, dopo tutto stiamo parlando di una delle prime denominazioni italiane per numeri, che produce da sola i due terzi del vino lombardo e si esprime con un variegato ventaglio di tipologie a cui negli anni ha corrisposto una decisa crescita qualitativa, con una transizione dal vino sfuso all’imbottigliato che finalmente sta raccogliendo i risultati di oltre un decennio di sforzi.

E poi è il grande serbatoio di Pinot Nero per tutta l’Italia, il terzo comprensorio mondiale per superficie vitata di questo vitigno, dopo Champagne e Borgogna. Vi viene studiato da tempi non sospetti, anche con la creazione di cloni non solo da spumantizzazione, che hanno avuto successo pure all’estero. E vi si producono bollicine Metodo Champenoise da più di un secolo (1865, Conte Giorgi di Vistarino), quando cioè la vocazione spumantistica del Bresciano non era nemmeno un sogno lontano, e prima ancora che Ferrari “inventasse” il Trentino. E non a caso gli è stata riconosciuta una DOC sin dal 1970, e la DOCG dal 2011.

OK, tutto bellissimo. Ma allora perché i corridoi erano vuoti? Non è una domanda oziosa. Ne va del benessere di un territorio che si fonda sulla produzione di vino anche in forza dell’indotto, con una filiera che coinvolge ben 1.300 aziende. A suo tempo vi è forse stato un difetto di autostima, una insufficiente convinzione nel perseguire l’obiettivo di una qualità superiore, un adagiarsi su un mercato che ben recepiva tipologie di prodotto destinate al consumo quotidiano a mo’ di commodity, senza la lungimiranza di intravedere come la tendenza stesse mutando.

Con tutto quel che ne consegue: un diverso approccio alle pratiche agronomiche, con una drastica diminuzione delle rese in primis, che per coltivatori diretti abituati a legare la propria sopravvivenza a copiose produzioni remunerate con prezzi talmente bassi da sfiorare l’insulto, rappresentava un vero e proprio mutamento di paradigma, un epocale salto nel buio. E poi, anche per le piccole aziende, la necessità di confrontarsi col mondo, un mondo ancora da conquistare visto che, con le dovute eccezioni, la percentuale media di export sfiora solo il 10%!

Quindi una produzione da ripensare, perché una pletora di tipologie costituisce di certo un’opportunità di reciproche sinergie commerciali, ma deve essere anche comunicata. In questo contento il Consorzio di tutela ha ben operato, dapprima decidendo di concentrare gli sforzi promozionali solo su alcune di esse, più tipiche e tradizionali, ma non per questo meno adatte al consumatore moderno, anzi. Inoltre, implementando modifiche al disciplinare che non nascondessero l’ambizione di innalzare l‘asticella della qualità, iniziando a giocare un altro campionato.

Se lo spumante metodo classico a base Pinot Nero è solo una frazione della massa di vino prodotta nel comprensorio, con un potenziale di 2 milioni di bottiglie ne rappresenta comunque la punta di diamante in termini di rappresentatività, l’opportunità adatta a consolidare nell’appassionato la cognizione dell’Oltrepò come territorio di produzione di GRANDI vini, tra l’altro (il che non guasta) proposti a prezzi convenienti.

Ed ecco che la percentuale minima di Pinot Nero è salita dal 70 all’85%, e la raccolta manuale delle uve è divenuta obbligatoria, con buona pace di certi imbottigliatori e di certe produzioni massificate. Inoltre è stata introdotta la tipologia “Riserva” con almeno 48 mesi di permanenza sui lieviti (più di un Trento DOC, per dire), e la commercializzazione è consentita solo quando siano trascorsi almeno due mesi dalla sboccatura. Dulcis in fundo, il nome ufficiale della denominazione è stato beneficamente semplificato in Oltrepò DOCG Metodo Classico.

Di questi cambiamenti, del pensiero positivo che li anima, e di come promuovere la denominazione nel suo complesso, parlavo con il direttore del Consorzio Carlo Veronese, mentre assaggiavo le etichette prodotte dalla Cantina La Versa, marchio storico adesso divenuto il gioiello della corona della grande cooperativa Terre d’Oltrepò (800 soci conferitori che coltivano 5.000 ettari di vigna). Trattasi della promessa di un nuovo inizio per un brand che ha “insegnato” a molti italiani a bere spumante, e che poi si è appannato per una serie di vicende intalianamente tristanzuole, che hanno visto più volte gli amministratori succedutisi nel tempo maggiormente presenti nelle cronache giudiziarie piuttosto che non in quelle enogastronomiche, dove avrebbero dovuto svettare.

In forza di quanto sopra, non dubitavo che mi sarebbero stati sottoposti assaggi di qualità. Ma mentre cresceva un calice via l’altro, qualsivoglia inconscio preconcetto in merito al livello degli spumanti dell’Oltrepò è stato presto fugato. Tanto più che il mio orizzonte qualitativo nei vini spumanti ha i suoi punti di riferimento in frequentazioni francesi, dalla fattura spesso cesellata dalla passione profusa dai piccoli récoltant.

Ma questi prodotti di cooperativa niente hanno da invidiare. Ad iniziare dal Testarossa, un Pinot Nero in purezza che ha affrontato con disinvoltura una permanenza di 60 mesi sui lieviti, nonché una sboccatura risalente a un anno e mezzo prima del momento del mio assaggio. La fragranza floreale e delicatamente erbacea dell’olfatto non ha  abdicato, e si muta in un’accattivante maturità agrumata al palato. Se detta ammicca ai consumatori in trasferta dal Prosecco, peraltro questa “piacioneria” appena accennata, se vogliamo così chiamarla, appare sapientemente calibrata, riscattata dalla freschezza di un sorso dalla mousse garbata, saporito e reso gastronomico da una leggera sensazione amaricante sul fin di bocca. Ottimo risultato per una tiratura tutt’altro che confidenziale, con un potenziale di 100.000 bottiglie.

E ho continuato a stupirmi positivamente con un Pas Dosé millesimato 2015 in corso d’opera, atteso sul mercato a giugno, dalla bolla fine già alla vista, con naso variegato ove coesistono toni fruttati e floreali che ritornano al palato con solo un poco di vegetalità sul fin di bocca. Ma quanta fragranza, e quanta possibilità di evoluzione!

Mi complimentavo con il direttore della cantina, di estrazione, pensate un po’, trentina, che mi confermava che era stato il primo a stupirsi quando, giunto in cantina, aveva trovato delle basi spumante e delle partite di vino in affinamento dal valore insospettato. Quale miglior viatico per osare (appunto!) ad alzare l’asticella!?

Ed ecco un Pinot Nero Cruasé (ovvero la versione in rosato) 2018, dal naso che spazia tra richiami agrumati di mandarino maturo, sbuffi di melagrana, pot-pourri di fiori appassiti. La bocca è fresca, sapida, profonda, slanciata nell’allungo da richiami fragranti. Quanto all’eleganza della tattilità e dell’effervescenza, più non dico. Mi si consenta di aggiungere che veramente non si poteva chiedere maggiore suadenza. In pratica, una sinestesia di qualità talvolta opposte che si integrano a vicenda in una sintesi virtuosa, degna di blasoni più celebrati.

Dulcis in fundo, a dimostrazione della capacità di elaborare spumanti con diverse impostazioni stilistiche, ecco l’anteprima del Collezione 2008, cuvée di pinot nero all’85% e relativo saldo di chardonnay, con 120 mesi sui lieviti, per il conseguimento di un’eleganza senza tempo, a partire dalla grafica dell’etichetta. Gli amanti delle bollicine che si terziarizzano elegantemente in bottiglia qui sono a casa: le note di croissant fanno da pendant sia ad un frutto che si è in qualche modo mantenuto, sia a una calibrata ossidazione, non negativa, ma anzi che aggiunge complessità. Ed il sorso si impone per la deliziosa freschezza, con profondità sapida a corredo. Non un esercizio di stile per una conversazione after dinner, insomma, piuttosto una bottiglia tuttora golosamente gastronomica.

Rileggendomi noto come le mie note, per quanto incomplete, somigliano a un panegirico. In realtà scaturiscono dal piacere di aver conosciuto, o meglio ritrovato, una realtà e una qualità diffusa che posso senza meno annoverare tra le mie preferite. D’ora in poi, in carenza di Champagne, mi sentirò meno solo. E anche il mio portafoglio ringrazierà.

Ah, non abbiate paura di smentire le vostre convinzioni (ri)provando un Pinot nero spumante dell’Oltrepò: potreste piacevolmente stupirvi, come è successo a me.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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