Oltrepassando il confine. Da Trieste alle osmize del Carso, fra Malvasia e Vitovska

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VitovskaIl lembo estremo orientale d’Italia ha un confine che non è un confine. Di solito è la geografia a tracciare i margini, con catene montuose, fiumi, mari. Ma qui è stata la storia, una storia lunga e complessa a tracciare una falsariga di confine. Se di solito il confine è una linea su una mappa, mai come qui attorno a Trieste il confine è uno stato d’animo fluido, è una fascia ampia, poco definibile. Si percepisce nell’aria, anche in città, e sempre più lo si avverte appena fuori, salendo verso l’altopiano del Carso.

Lo scrittore triestino Mauro Covacich racconta questa complessità in un’immagine delle colline di Basovizza, sopra Trieste:
“Fino a poco tempo fa in questo bosco vigeva davvero una specie di doppio turno. Di giorno, campo di atletica. Di notte, guado della speranza. Di giorno, uomini liberi, in fuga da niente e da nessuno, assorbivano la loro dose di ossigeno per tenersi in forma, sudavano per migliorarsi. Di notte, uomini con le scarpe da ginnastica scalcagnate si nascondevano ai fari dei poliziotti, ingannavano come potevano il fiuto dei cani lupo.”
L’ultimo esodo è terminato nel 1999, con i profughi dal Kosovo, quando la Slovenia non era ancora Europa, e questo era il confine tra le terre dei tremendi conflitti etnici e la terra della ricchezza, sognata in televisione.

Su e giù per il confine
Ho provato a varcarlo, questo confine, per vedere l’effetto che fa. Non salendo dal mare verso l’entroterra sloveno, ma aggirandolo dall’interno, entrando da nord, dal Friuli in Slovenia attraverso Gorizia, e poi di nuovo verso l’Italia. Carso sloveno terra rossaDopo Gorizia cambia la gente, scende il prezzo della benzina, ma il paesaggio potrebbe essere indifferentemente sia italiano che sloveno. Alzando lo sguardo verso il Carso, in alcuni colli più alti si vedono ancora le scritte “TITO”, tracciate con i sassi bianchi sui prati. Il tempo non le ha ricoperte, o forse c’è ancora bisogno di aggrapparsi a qualcosa di solido del passato.

Belle le vigne del fondovalle, lungo la Vipava, testimoniano di uno sviluppo vinicolo ponderato e consapevole; poi da Stanjel si sale su verso il Carso, e per chilometri sono boschi e strade tortuose in salita. Poi finalmente vedi la terra rossa. Piccoli appezzamenti, realizzati nelle doline, gli avvallamenti di origine carsica, circondati da boschi e distese di rocce calcaree. A inizio estate, dal rosso della terra affiora il verde intenso dei solchi di patate, e il verde splendido della vite. Mai grandi estensioni. Per le strade, vicino ai centri abitati (passiamo in successione Kopriva, Skopo, Dutovlje), adesso ci sono i cartelli della Strada del vino del Carso (Kras, in sloveno), che indicano i vari produttori. Qua è la terra del Terrano (Teran), vitigno della famiglia del refosco, che dà un vino rosso dall’acidità tagliente, duro e difficile da capire di primo acchito, ma sanguigno e vero come pochi.
E poi la Malvasia, sempre vinificata secca, e la Vitovska, a completare la triade dei vitigni del Carso.

Sul muro di una vecchia casa, si legge una scritta un po’ sbiadita:
Moja duša je židane volje kot bi bila pila kraški teran.

Carso TeranSi tratta di un verso del poeta sloveno Oton Zupancic: La mia anima si rallegra, come se avesse bevuto il terrano del Carso. Che bello, viene da pensare, che i muri parlino di vino e di poesia. Muri che di brutture della storia ne hanno viste anche troppe.
Ancora boschi, si sale fino a che una coppia di casottini doganali abbandonati a pochi metri l’uno dall’altro ricordano che qua c’è il famoso confine. Pochi metri ancora e la collina inizia a digradare verso il mare: eccoci nel Carso italiano, a Opicina. Da qui a Trieste è solo questione di scendere giù, lentamente verso il mare, verso quello che fu il porto dell’Impero Austroungarico.

Perdersi a Trieste
Trieste Piazza Unità d'ItaliaÈ una sera di fine maggio assai speciale per Trieste; domani primo giugno qui si concluderà il Giro d’Italia 2014; c’è la notte bianca, una marea di gente in giro soprattutto nella parte bassa della città, attorno a Piazza Unità d’Italia, bella da sembrare irreale. Una piazza dallo splendore talmente asburgico da nascondere per certi aspetti la natura mediterranea, romana, medievale, multiculturale della città.
Il giorno successivo, per cogliere gli altri lati della triestinità, lasciamo la parte bassa, e ci perdiamo nei vicoli ripidi verso Sottomonte, costeggiando per un tratto il tram-funicolare per Opicina. Sembra una Genova ordinata, una costiera ligure con una luce diversa, più chiara. Continuiamo a perderci, finché non ci imbattiamo nelle scalinate che portano verso la San Giusto TriesteCattedrale di San Giusto: e qua sembra d’essere a Napoli, con vicoli intricatissimi e un arco romano che trovi quasi per caso, incastonato in una casa medievale. Anche San Giusto non sfugge alla legge triestina delle commistioni, delle mescolanze di stili: il massiccio campanile ingloba un peristilio romano, salendo le sue scale ci si imbatte in uno splendido fregio. In cima, al mezzogiorno, si ha il brivido di vedere e sentire le enormi campane suonare a un metro dalle proprie orecchie. La vista da qua è indescrivibile, lontana anni luce dall’idea un po’ algida che si riceve di Trieste sfogliando le guide.

Verso il Carso
frasca CarsoPrima che chiudano le strade per il Giro, ripartiamo verso l’altopiano, verso il Carso. La bella stagione e l’arrivo della carovana ciclistica hanno fatto sì che molte osmize abbiano tenuto aperto in questi giorni. L’osmiza è un retaggio dei tempi asburgici, nata da un editto del 1784 dell’imperatore Giuseppe II, che consentiva ai contadini, per brevi periodi, di vendere in modo diretto i loro prodotti. Per segnalare l’apertura dell’osmiza, bastava esporre una frasca fuori dalla casa; finché la frasca rimaneva verde, si poteva andare a bere il vino, mangiando formaggio, pane e uova sode. Anche oggi è così, e non è raro nella bella stagione imbattersi in piccole frasche, o cartelli improvvisati che indicano che in una certa borgata è aperta un’osmiza. In questi giorni, la fortuna ci assiste; nel piccolo borgo di Prepotto (da non confondere con il Prepotto dei Colli orientali del Friuli, in provincia di Udine) le osmize aperte sono almeno tre, tra cui due mostri sacri del vino: Skerk e Zidarich.
All’arco che dà sul cortile di casa Skerk c’è una frasca; è il nostro “battesimo” dell’osmiza. Entriamo col timore di disturbare, ma varcata la soglia l’imbarazzo passa in fretta; ci sono tavoli e panche, e tanta gente seduta a chiacchierare e mangiare, come fosse una piccola sagra di paese; la luce del Carso, chiarissima, fa risplendere i geranei, i bicchieri tinti di terrano, i muri bianchi di pietra, le facce allegre della gente. osmiza Skerk 2Basta trovare un posto a sedere, ed entrare a comprare da mangiare e da bere nella casa vera e propria: vino rosso e malvasia, per iniziare, e da mangiare cotechini cotti nel pane, involtini di pane alla ricotta e finocchio selvatico, un prosciutto tagliato al coltello di una bontà memorabile, formaggi locali. Il rosso è un taglio di Terrano e Merlot, fresco, acido, giovane, pulito. La Malvasia sfusa è ricca, aromaticissima, con un naso da vino dolce e una bocca invece carsolina, che ti lascia esterrefatto per la sua secchezza acida, corposa e diretta.
Al tavolo accanto dei ragazzi hanno ordinato solo da bere, ma la padrona di casa, insieme ai bicchieri porta un cestino di uova sode e grosse fette di pane morbido; cose da commuoversi.
Ci vuole un bicchiere di Vitovska a farmi riprendere. Scelgo quella in bottiglia, vendemmia 2012: altopiano Carso Prepottoha colore carico, opaco, un naso ricco di frutta gialla, un accenno di albicocca. In bocca è ampia, di gran spina acida, praticamente tannica, lunghissima. Per quel poco che riesco a serbarla nel bicchiere ha una progressione splendida, con l’aria acquista profumi sempre nuovi, e sempre maggiore complessità. Me la godo con pane e prosciutto cotto in forno; l’osmiza di Skerk la scorderò difficilmente.
Poche svolte nelle stradine di Prepotto, e si vede già un’altra frasca appesa. C’è scritto: Zidarich. E questo basta a far avanzare le gambe quasi in automatico. È passata l’ora del pranzo, la folla si è diradata. Da un’altra osmiza vicina arriva il suono di una fisarmonica. Zidarich ha costruito, sopra la nuova cantina, una grande terrazza che dà verso il mare.
terrazza Zidarich 2Il mare è anche nella Malvasia: dorato carico nel bicchiere, naso esplosivo, quasi piccante, accenni di foglia di pomodoro, mare, ostrica… In bocca ha un impatto fumé, sapido, saporito, lungo, con sensazioni retronasali fruttate e una chiusura iodata. Perfetta con le tartine al lardo che escono dalla cucina.
Poi è il turno della Vitovska 2012, dal colore opaco, con i toni dorati-aranciati, che profuma di frutta gialla (susina, pesca) e lievito, e in bocca ha una presenza tattile, leggermente tannica; si tratta di un vino fine, lungo, complesso (riaffiora incessantemente il fumé, il lato minerale e quello fruttato). Un vino splendido, in pieno equilibrio tra piacevolezza e complessità.
Il Terrano ha il suo bel rubino brillante, un naso di bacche di sambuco, con un richiamo ematico-amarognolo-vegetale di bella complessità. In bocca è scorrevole, ha acidità scalpitante, e sapidità che lo rende lunghissimo nella persistenza. Diventa difficile staccarsi da questa terrazza di Prepotto. C’è la pietra, c’è il senso dell’altopiano, con le vigne appena sotto, e la terra rossa, c’è la prospettiva e il senso del confine: in lontananza, a ovest, oltre una lingua di mare, si intuisce la laguna di Grado; a sud il mare aperto, a est l’Istria.

Alle bocche del Timavo
bocca del TimavoViene però il tempo di scendere, di tornare verso casa. Ma prima, lasciato l’altopiano, è ancora possibile l’incontro con un’ultima meraviglia. Scendendo verso il mare, si supera Duino, con il famoso castello a strapiombo dove risiedette il poeta Ranier Maria Rilke, si lascia la strada costiera svoltando per le bocche del Timavo: il fiume più incredibile in cui può imbattersi un viaggiatore. È un fiume carsico, assai misterioso perché non se ne conosce ancora esattamente il percorso sotterraneo. Nasce in Croazia, passa in Slovenia e, a Vreme, si inabissa, scorrendo per 40 chilometri sottoterra; infine emerge qui a Duino da una spaccatura della terra a poche centinaia di metri dal mare, gonfio di acque. Accanto alla maggiore delle sue bocche (che sono tre), sorge la solitaria chiesa gotica di San Giovanni in Tuba. Il Carso crea queste meraviglie, con acque che scompaiono nelle viscere della terra, si raccolgono, scorrono, e poi riappaiono.
Il nostro viaggio termina qua; sull’autostrada, superato Monfalcone, ti accorgi con una specie di nodo in gola che la luce torna normale. La luce speciale di Trieste, la luce del Carso, sono rimaste là, verso il confine.

 

Consigli di lettura su Trieste e il Carso:
Mauro Covacich, Trieste sottosopra, Laterza 2013, 128 pp, 10€
Claudio Magris e Angelo Ara, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi 1987, 216 pp, 16,50€

Per informarsi sulle aperture delle osmize:
www.osmize.com
www.skerk.com
http://zidarich.it

GALLERIA DI IMMAGINI

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

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