I vini del mese e le libere parole. Marzo 2018

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toulouse-lautrec_de_henri_vincent_van_gogh_sun-1Marzo ha portato con sé freddo, pioggia e neve. E’ stato un mese generoso, in tal senso. Niente di meglio per poter riscoprire il calor buono in grado di emanare da certi vini, niente di meglio che provarci con i rossi: monumentali (Salvioni), delicati (Poggio di Sotto), eroici (Mandino Cane) o “sognatori” (Domaine de L’Arlot), sono stati loro la compagnia ideale per le libere parole.

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Nuits Saint Georges Clos des Forets Saint Georges 1er Cru 2014 –  Domaine de L’Arlot

nuits-saint-georges-clos-des-forets-saint-georges-14La letteratura critica, in tema di Borgogna, è solita affidare ai pinonuar di Nuits Saint Georges un carattere austero e sauvage geneticamente portato all’attesa, da che ha bisogno di tempo per sciogliersi in fraseggi più eleganti e concessivi. Dopo la letteratura però vengono i fatti (i vini), i quali, nel sommare specificità stilistico-interpretative differenti alla voce del climat e dell’annata, non si prestano poi tanto ad essere ingabbiati in cliché troppo assertivi. Prendete questo eccezionale Clos des Forets, per esempio, e guardate come fa presto a sbarazzarsi di alcuni luoghi comuni.

Il primo: la freschezza, il senso del dettaglio, la naturalezza espressiva e l’ariosità di trama proiettano questo vino su livelli di compiutezza invidiabili, con un lirismo, una sensualità tattile e una tensione sapida che non lo appaiano al carattere silvestre e ombroso di un giovane Nuits Saint Georges, quantomeno non per come la letteratura ci ha abituati ad intenderlo. E sì che ci troviamo nella parte sud del territorio comunale, ovvero nella mai troppo citata Premeaux (se non fosse per Clos de la Maréchale). Ecco, lui se ne fa un baffo: il fulgore che risplende da questo bicchiere raggiunge vertici inimmaginabili.

Il secondo: confuta con i fatti i pregiudizi tipici del bevitore “sapiente e smaliziato”, relegandoli a poca cosa. Pensa te a confessargli che Domaine de L’Arlot appartiene ad AXA Millésime, potente multinazionale nel campo delle assicurazioni. Gliela darebbe ancora una chance a questo vino, il bevitore “sapiente e smaliziato”? Glielo concederebbe un credito di fiducia, dopo aver appreso del contesto padronale che ne governa le sorti?

Oggi due arrière pensée sono stati sfatati in un colpo solo, e io dico che ne è valsa la pena.

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Rosso di Montalcino 2008 – Poggio di Sotto

poggio-di-sotto-rdmUn vino che vola leggero come un aeroplano, e che all’aria si inspessisce. Ma non nel senso della prestanza fisica o del volume, nel senso dell’interiorità. Sciolto, infiltrante, salino, delicato, freschissimo, personale, la sua nonchalance rischia di confondere il bevitore disattento. Qualcuno infatti sarebbe portato a propendere per la mancanza di una reale complessità. Eppure non c’è una cosa che è una che non ti piaccia di lui.

Il candore che è in grado di infondere questo sorso vivo e quasi “nordico” nell’incedere (a più riprese ci ha ricordato un Sangiovese chiantigiano), bicchiere dopo bicchiere ti strega raccondandoti nei sottotraccia di stile ed originalità. Non smetti di bramarlo, e la sua grazia sospesa ti fa venire alla mente un grande interprete che oggi non c’é più, Giulio Gambelli.

Qui hai la sua firma postuma, ed è una firma che non scolora.

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Brunello di  Montalcino 2006 – Salvioni

salvioni“E corre corre corre la locomotiva, e sibila il vapore sembra quasi cosa viva” (F. Guccini – La locomotiva)

Monumentale, di eloquente gioventù ed altrettanta prospettiva, è un vino il cui temperamento terragno, con la saldezza granitica della sua trama, si stempera all’aria in un disegno étonnante per profondità, ampiezza e tensione, a sua volta ingigantite dalla fortissima traccia sapido-minerale. La fierezza indomabile del tratto gustativo è un marchio di qualità che val bene ad esempio di un territorio intero, perché soltanto ad un territorio così senti che può appartenere.

La sua mèta è oltre, non è qui, non è adesso. Ma da qui al futuro avrai una certezza in più.

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Dolceacqua Superiore Vigneto Arcagna 1989 – Mandino Cane

dolceacqua-mandino-caneErano in pochi, allora, a credere nel Rossese di Dolceacqua. E mi riferisco alla gente del posto, produttori inclusi. L’abbaglio della floricoltura ne aveva già indirizzato da tempo destini e fortune.

Sotto quei chiari di luna pensare di proporre un’enologia di qualità era un fatto eccezionale, dalle parti di Dolceacqua. Troppo pochi i contadini caparbi che avessero l’ardìre e l’orgoglio dell’imbottigliamento. Uno di questi, padre putativo della denominazione assieme ai Perrino “Testalonga”, ai Guglielmi, ai Rondelli, ai Maccario, ai Biamonti e ai Tornatore, è stato Giobatta Mandino Cane, figura carismatica della Liguria del vino di più squisita matrice artigianale. Per gli ingenui come me, fin dai tempi veronelliani, un mito.

Nel corso dell’ultima trasferta dolceacquina Nino Perrino “Testalonga”, leggendario vignaiolo dei luoghi, si è superato, facendomi dono di qualche vecchia annata di Vigneto Arcagna dell’amico Mandino Cane, scomparso che sono pochi anni. Apriti cielo, da quanto tempo le cercavo!

Questo ’89 è nudo. Letteralmente. C’è rimasto lo scheletro, lo scheletro della sua terra, e anche il vento. Tanto basta alla meraviglia: forti umori salmastri annunciano una struggente pulsione minerale e una pervasiva corrente acida, le stimmate di un vino che ancora si tende e si propone. Si è privato di ogni orpello per riscoprire le sue intimità, ciò che lo fa librare grazie alla silhouette affilata, all’assenza di gradino tannico, alla spontaneità di beva.

A trent’anni suonati (r)esiste ancora una meraviglia liquida proveniente da una cantina che non c’è più. Intende dare forza a tutti coloro che hanno deciso di rimanere per far rinascere quel territorio, a partire dalla riscoperta del patrimonio di vecchi alberelli che si inerpicano negli anfratti più belli e nascosti dell’alta Val Nervia e della Val Verbone. Lo hanno fatto credendoci, ispirandosi forse a bottiglie come questa, o alle gesta di un certo Giobatta Mandino Cane, personaggio refrattario ad ogni tipo di accomodamento, e per questo pervaso da un amour fou verso la propria terra.

Erano in pochi, allora, a credere nel Rossese di Dolceacqua. Vedi un po’ cosa ti combina il tempo!?

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In alto: Ritratto di Vincent van Gogh  – Henry de Toulouse-Lautrec

FERNANDO PARDINI

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