I vini del mese e le libere parole. Settembre 2018

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nighthawksAhi settembre, mi dirai, quanti amori porterai?“.

All’insegna dell’eclettismo, ecco la nuova frontiera del bianco d’autore metter su casa nel Jurançon, ecco il Pinot Noir della Vallée che non ti aspetti ma c’è, ecco le Colline Lucchesi che battono un colpo (e che colpo) tanto per farci capire che ci sono anche loro, ecco la monumentale presenza di un nuovo Brunello dedicato a un affetto, ed ecco infine la strenua resistenza alle insidie del tempo offerta da un indomabile Sangiovese chiantigiano con il cuore d’altura.

Cosa c’è di meglio, se non l’eclettismo, per le libere parole?

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Jurançon Sec Mantoulan 2011 – Clos Lapeyre

Non è che per rintracciare la nuova frontiera del vino (bianco) bisognerà guardare a sud-ovest, eh? Perché è già un po’ di tempo che si registrano sommovimenti tellurico-emozionali che vanno direzionando i radar degli appassionati più sensibili alle ragioni del terroir verso i Pirenei atlantici franciosi.

Oddio, Jean Bernard Larrieu e il suo Clos Lapeyre non sono propriamente degli sconosciuti, lo sanno in tanti che rappresentano una delle avanguardie espressive di quei luoghi e anche più in là: d’altronde, tensione sperimentale e rispetto antico trovano qui compimento in una gamma di vini tanto variegata quanto stimolante, che non si fa mancare il dono della singolarità.

Come ad esempio il fatto di prediligere il prezioso petit manseng (escludendo così il gros manseng) nella composizione varietale di certi Jurançon Sec, vedi il Mantoulan, superando così il tradizionale retaggio che vede il petit manseng impiegato principalmente -quando non esclusivamente- nei vini moelleux, vanto assoluto di Béarn e dintorni (assieme alla salsa bearnaise, “savasandir”).

Mantoulan 2011 può vantare un paio di caratteristiche che non passano inosservate: la capacità di cambiare molto nel bicchiere con l’ossigenazione (sempre verso il meglio, sempre verso il dettaglio) e di esprimersi pienamente a qualsivoglia temperatura di servizio, eppoi il requisito della signorilità dietro l’apparenza esplicita dei profumi.

la-magendia-lapeyreSe infatti al naso ne apprezzerai l’intensità e la dolcezza speziata, a richiamare i frutti esotici, la nespola e il miele, ciò che potrebbe indurti a pensare ad un bianco morbido e maturo, ti dovrai ricredere se stai alla droiture gustativa, innervata da un sale notevole e da un deciso piglio minerale, più che acido, che da soli bastano e avanzano alla meraviglia, rendendogli un passo cadenzato, fermo, quasi austero, bellamente dicotomico rispetto a quanto appreso al naso.

Non pago, mi sono poi voluto confondere con La Magendia, ispirata cuvée ricavata da uve petit manseng raccolte a novembre inoltrato, un vino moelleux in grado di aprire brecce importanti nel cuore degli appassionati più esigenti. Che volete farci, è roba buona per racconti tutti nuovi, ma è anche un’altra storia.

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Vallée d’Aoste Pinot Noir 2015 – La Crotta dï Prado

crotta-di-pradoConstantin et Jean Paul Praz (scritto proprio così: et), Turille, Jovençan. Eh sì, proprio tutto, in quella etichetta, sembrerebbe riportarci volenti o nolenti alla Francia. Anche se della Francia, oltre ai fonemi, conserva solo il vitigno di base, pronunciato anch’esso alla francese. Per il resto, quel che c’è dentro la bottiglia parla valdostano con un’ineccepibile inflessione dialettale, capace di traghettare le rarefazioni di un sorso ricamato sulle lunghezze d’onda dell’eleganza e del candore fruttato.

Lo fa con un garbo inatteso, senza piegarsi alle regole della didascalia, presentandosi né troppo dolce né troppo amaro, eppure oltremodo riconoscibile dal punto di vista varietale. Il commento di cuoio e liquirizia, su quel fondo suggestivo di fiori e ribes, accompagna una tattilità soffice e cremosa, senza rughe tanniche, annunciata da un rubino scarico, trasparente e nudo.

Un vino come un soffio, con un pizzico di calore a scaldare e poi via spedito, sulla scorta di una provvidenziale corrente di acidità. Un vino tenero e longilineo senza che sfiori la magrezza. Un vino delizioso che si muove sulle punte con leggerezza.

E se è bello attribuire piena dignità alla misconoscenza, come fonte primaria di sorprese e nuovi stimoli alla curiosità, è bello anche scoprire che alla Crotta dï Prado non si pratica monocoltura. Vi si coltivano infatti anche mele e pere, fra cui la Martin Sec, indimenticabile compagna del vino. Insomma, Constantin et Jean Paul Praz, frazione Turille, Jovençan, ITALIA: chi l’avrebbe detto mai!?

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Brunello di Montalcino Riserva Nello 2012 – Baricci

baricci-nello-12Sarebbe stato orgoglioso, Nello Baricci, di un vino così. Non tanto perché porta il suo nome, quanto per la personalità che risponde fedelmente agli stimoli del suo storico vigneto e di quella parte della collina di Montòsoli da lui tanto amata (e rispettata) in sessant’anni di vendemmie consapevoli.

Nello Baricci ci ha lasciati da poco, e ci ha lasciati da grande vecchio della viticoltura ilcinese. La statura di uomo, prima ancora che quella di vignaiolo, brilla e brillerà di luce propria nell’ambito della storia sofferta e bella di Montalcino. La sua famiglia, i nipoti Federico e Francesco Buffi in particolare, che sono poi i continuatori della specie, in suo onore hanno voluto sovvertire una regola non scritta di casa Baricci, approdando ad un Brunello Riserva.

Non so spiegarvi per intero le ragioni di una scelta, visto e considerato che di ettari a disposizione non ne hanno poi tanti e ai due vini prodotti fin qui, Rosso e Brunello, tutto gli puoi dire men che gli manchi il carattere e la caratterizzazione. Posso soltanto aggiungere che alle eventuali titubanze ha risposto perentoriamente il vino, monumentale per assetto e prestanza, autentico per attitudine e sentimento di fondo, semmai troppo giovane per essere bevuto oggi. Ma io non ho resistito. E il suo passaggio mi ha irretito di bellezza, una bellezza introversa, compressa, futuribile, fatta di scura balsamicità, di trame profonde e tannini “baritonali”, lì dove l’austerità si fa evocazione.

Sono certo che a questo Brunellone il tempo concederà il privilegio grande di un futuro all’altezza. E una espressività ancor più dispiegata. Che poi, nel parlare di vino in divenire di fronte a cotanta eloquenza, si rischia persino la scontatezza. Dalla nostra avremo però il conforto della verità, quella di una storia contadina nella quale le parole futuro, divenire, continuità sono state le basi fondative per poter vivere la vigna. Ciao Nello, questo vino parla per te.

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Colline Lucchesi Rosso Tenuta di Valgiano 2006 – Tenuta di Valgiano

Nella mia “lunghetta” esperienza sensoriale rappresenta un caso rarissimo: nove anni dal precedente assaggio e in lui niente è cambiato! Non una concessione al tempo né alle sentenze implacabili di una parabola evolutiva. Non una mossa, insomma. La “cristallizzazione dello spazio empirico”, ci direbbe Giulio Carlo Argan. Per la prima volta, quindi, sarei costretto ad avvalermi delle stesse parole di allora, e della stessa meraviglia. Così farò.

Non prima di sottolineare che lui, con questa annata, era arrivato alla maturità stilistica ed espressiva. E che a partire da qui  – e per quanto fatto vedere fino ad allora- poteva dimostrare al mondo che le Colline Lucchesi sapevano partorire unicità. Moreno Petrini, Laura di Collobiano e Saverio Petrilli, rispettivamente proprietari ed enologo, di strada ne hanno percorsa assieme, riuscendo a costruire dal nulla un ispirato “sciatò” in salsa toscana, omaggiando la loro terra con un percorso fatto di approfondimenti, studio dei suoli, gesti puliti e rispetto.

Ottenuto in prevalenza da uve sangiovese (della vecchia parcella Scasso dei Cesari), syrah e merlot, per lui ho conservato giocoforza le parole di un tempo che recitavano così: “Sensazione appagante di uva bella e matura in ogni fase dell’assaggio, a regalarci un profilo carnoso, intrigante, di pienezza e dettaglio, e una grande eleganza d’assieme, in cui il ricamo tannico si fa trama preziosa, il sale forza motrice. E’ vino senza filtri e senza costrizioni, sensuale, melodioso e puro. Un Tenuta di Valgiano cresciuto in consapevolezza, saggio ed ammonitore, in grado di indicare la strada ed accattivarsi il futuro”.

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Coltassala 1995 – Castello di Volpaia

coltassala-95_2Lo abbiamo riesumato non senza emozione. Ci ha riportato ai tempi delle nostre fitte ricerche enoiche, dei nostri ripetuti acquisti chiantigiani. Ci ha riportato agli entusiasmi giovanili. Ci è voluto un po’ per riconoscere cosa avevamo pescato dalla mischia, tanta la polvere depositatasi sopra la bottiglia. Ma fin da quando lo abbiamo sversato nei calici ci ha fatto capire chiaramente, ancora oggi, di che pasta fosse fatto.

Un rubino saldo, vivo e sempre “in tiro” annuncia un naso potente e seducente al contempo, dove la sensualità del frutto va a sposare una profonda balsamicità di matrice silvestre, tratto accomunante dei migliori Sangiovese ricavati da una annata dialettica come la ’95. E poi ancora erbe aromatiche, alloro, liquirizia. In bocca la pienezza del sorso si dilata e si tende grazie alla decisa spinta acida, una acidità ancora fremente, silente testimonianza di un terroir che la freschezza non se la fa proprio mancare. Saldo e bilanciato come non mai, non molla la presa, è intenso ma carezzevole, tosto ma spedito.

Ah, la controetichetta recita sangiovese 95%, mammolo 5%. E, immancabilmente, vino a Igt. Altri tempi, dal momento in cui affidarsi alla denominazione Chianti Classico poteva portare allora ad insidiose derive di immagine, quando non ad incomprensibili inghippi varietali. Oggi Coltassala si fregia orgogliosamente della dizione Chianti Classico (Riserva, in futuro Gran Selezione), ma il fascino del cru è immutato. Resta appeso a stagioni felici come questa e alle potenzialità di uno stupendo vigneto di alta collina, situato al centro del mondo, sulla strada che ascende a Volpaia.

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Nella prima immagine in ordine di apparizione: Nighthawks (I nottambuli), di Edward Hopper

FERNANDO PARDINI

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