Quaderni chiantigiani/1. Riecine, Castello di Ama

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RIECINE

Riecine per me ci sarà sempre, Riecine con me ha gioco facile. Non tanto e non solo per la qualità dei vini, ormai cumsustanziale a quei luoghi e a quei talenti, quanto per il groviglio dei ricordi che al suo nome sono legati, impalpabili suggestioni a celebrare un’assenza. Sono i più belli e i più dolorosi, e riportano a galla l’emozione struggente di un addio, restituendomi la misura esatta di una distanza fattasi incolmabile.

Riecine eppure compie il miracolo, ogni volta, illudendomi che mio padre sia ancora lì con me, e pure contento dei vini della contemporaneità, che niente peraltro hanno disperso del fulgore e della forza espressiva dei vecchi Riecine.

Riecine però è realtà viva, i principali nuclei vitati di cui dispone – Gittori, Vertine e, per l’appunto, Riecine – costituiscono l’invidiabile patrimonio su cui si fondano identità e futuro. I vini poi conservano la statura del fuoriclasse, e lo fanno fin dall’abbrivio, fin da come ti si presentano agli occhi, con la cura formale in subordine rispetto all’eclatanza del carattere, riscontrabile in una proposta accordata che coinvolge il vino bandiera ( Chianti Classico) giù giù fino al Riecine di Riecine – che esplora le potenzialità del vigneto più vecchio attraverso l’esclusiva vinificazione in cemento e macerazioni più lunghe – e a La Gioia, non di rado la quadratura del cerchio.

E se il sangiovese è e resta l’assoluto protagonista (con un probabile nuovo cru in dirittura d’arrivo), un piccolo spazio ci sarà pure per il Trebbiano, dove macerazione sulle bucce e cocciopesto tenteranno di conferirgli un respiro nuovo.

E a proposito di nuovo, qui a Riecine da qualche stagione c’è un giovane ragazzo, enologo di formazione e attuale direttore tecnico (nonché amministratore unico della società), a cui non puoi non ascrivere i meriti di un percorso luminoso: Alessandro Campatelli. Riecine è ormai la sua casa, lo vedi e lo senti, e la responsabilità di un compito così importante lui la stempera a suon di simpatia, understatement, umiltà e passione. E’ persino facile immaginare per lui un futuro all’altezza.

 

Contributi fotografici di Lorenzo Coli

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CASTELLO DI AMA

Ad Ama mi ci portò mio padre che ero ancora un ragazzetto. In gita con i sommelier dell’Ais Versilia. Ad attenderci un giovane direttore commerciale di cui avremmo sentito riparlare, Silvano Formigli, che a quei tempi là svelò al mondo QUEL mondo.

Sono tornato ad Ama altre volte più consapevolmente, ma non quanto avrei voluto. Ricordo L’Apparita ’87, quando mi fu versato a tavola: ero agitato dentro ma cercai di non darlo a vedere. Ci torno oggi, il borgo è struggente. Ché ad Ama non ci arrivi per caso, ma perché ci vuoi arrivare. La patina che prendono i colori delle cose trattiene a sé qualcosa di ancestrale, e te lo dà. Rimanda a un altro tempo che non sai datare. E i sassi, i sassi di Ama: mai visti tanti sassi così, in giro per il Chianti!!

L’isolamento di questi luoghi è assordante, eppure da quassù puoi slanciare lo sguardo fino alla Val d’Orcia, fin sull’Amiata. Orizzonti complessi, quelli di Ama. Nei pressi, la mitica badia di San Polo in Rosso come una vedetta.

Razionalità e raziocinio alimentano i gesti agricoli. Nulla è lasciato al caso. I vini sono irreprensibilimente vini di questi luoghi, con un Chianti Classico annata, Ama per l’appunto, che ha guadagnato negli anni un portamento e una compiutezza rari. Esordisce anche il nuovo Chianti Classico Riserva Montebuoni (2018), dalla florealità gentile e dall’abbraccio dispiegato, tutto sottigliezze e sale. E poi c’è lui, L’Apparita, merlot in salsa chiantigiana che con l’annata 2018 sembra aver ritrovato lo smalto delle vendemmie migliori.

L’angolo forse più evocativo sta però in un anfratto di cantina, fra le muffe e la frescura di un luogo destinato alla penombra, complice dell’oscurità. Essenziale e potente, lì è dove Marco Pallanti e i suoi più stretti collaboratori effettuano gli assaggi dei vini prelevati dai legni, al fine di deciderne le sorti. Che ad Ama le sorti di un vino si decidano in quel posto minuto e raccolto come una vecchia pieve di campagna, è un conforto che non dimentichi.

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Contributi fotografici dell’autore

 

 

FERNANDO PARDINI

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