Parliamo di vino naturale: dialogo con Maria Elena Boggio – lasecondadolescenza.it

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Giovanissima, dalla progettualità vulcanica e con formidabili doti di divulgatrice enoica, Maria Elena Boggio è la creatrice del blog lasecondadolescenza.it, che è divenuto, insieme all’omonimo profilo Instagram, un punto di riferimento per la discussione sui vini naturali. Durante i mesi difficili dei lockdown le sue dirette IG sono state una finestra vitale sul mondo del vino per tantissimi appassionati, nonché una boccata d’aria che aiutava a sognare, a progettare il dopo, a pensare al futuro. Mica poco. Insomma, parlare di Maria Elena è parlare di persone, di vini e… di sogni.

Per questo Maria Elena, che ha un “termometro della situazione” aggiornatissimo, è una delle persone più indicate per intavolare una discussione sul mondo del vino naturale, lei che in quell’ambiente si muove da anni, essendo anche mattina e sera dietro al bancone di Vinoir, una delle più specializzate enoteche di Milano (a tema naturale, ovviamente).
Ecco che nasce così questo dialogo, che è un po’ un gioco delle parti: io nella parte dell’intrigato dubbioso, lei nella parte di… lasecondadolescenza, una vitale e tostissima divulgatrice del vino naturale.

 

Maria Elena, partiamo dal sottotitolo del tuo blog: “pagina deparkerizzata”. Tanto per mettere le cose in chiaro…

Innanzitutto, grazie Paolo per la bellissima introduzione e, sì, deparkerizzati sempre. E non perché ce l’abbia con Robert Parker di per sé, ma perché il suo giudizio (i famosi 100 centesimi) a partire dagli anni Ottanta ha scatenato, per la sua influenza, dannose conseguenze sulla produzione enologica mondiale. Il meccanismo è semplice da spiegare: i vini che superano i 95 centesimi Parker acquistano in automatico valore sul mercato, quindi io produttore voglio i 95 centesimi per guadagnare di più, e per ottenerli produco un vino che si attenga ai parametri parkeriani di colore, concentrazione, intensità, affinamento. Non importa se sono in un territorio dove i vini non vengono così, mi farò aiutare dagli additivi enologici per “costruire” un vino parkerizzato, uguale nella Napa Valley, in Borgogna, a Bolgheri (per fare un esempio di parkerizzazione italiana). Penso che il cortocircuito sia evidente: vini fotocopia in ogni angolo del mondo a favore di un gusto sintetico e omologato, a discapito di ciò che di più prezioso abbiamo nel vino: la sua originalità, mutevole a seconda dell’annata. Nel vino come nella vita io cercherò sempre l’emozione di quella individualità non riproducibile (non parkerizzata).

E invece il nome, lasecondadolescenza, come è nato?

Attorno al 2016. È un’espressione che usavo raccontando ad amici le mie impressioni riguardo a un corso di avvicinamento al vino, che stavo frequentando per rompere la monotonia della vita di laboratorio. Sì, perché nel 2016 ero una bevitrice di vino saltuaria e distratta, ma soprattutto ero una biotecnologa impegnata in un complesso progetto di dottorato sul ruolo delle cellule staminali nella leucemia mieloide acuta. Il vino, entrato per caso nella mia vita, è stato in grado di riaccendere in me l’entusiasmo e soprattutto la passione per la scrittura, e scoprivo in quegli anni che le etichette di un’enoteca riuscivano a incuriosirmi come le tante copertine presenti in una libreria: l’entusiasmo, che la vita adulta aveva spento, ritornava nella maniera più inaspettata e nella forma di una “seconda adolescenza”.
Nella forma, e anche nella sfida, perché essere adolescenti è tutt’altro che semplice, significa scegliere chi essere, determinarsi. Nel mio caso un momento di svolta è stata la mia partecipazione alla manifestazione Vini Veri nel 2017. Non sapevo ancora che si chiamasse vino naturale, ma capii in quei giorni che quello era il vino in cui mi riconoscevo, e che soprattutto quelle erano le storie che volevo raccontare, affinché più persone possibili le conoscessero e le prendessero magari ad esempio. Da lì a qualche mese ho preso coraggio e ho pubblicato il primo articolo sul blog: non poteva che chiamarsi lasecondadolescenza.

Parliamo di social: che ruolo hanno avuto secondo te Instagram, o Tik Tok, o Facebook nel portare verso il grande pubblico il vino naturale? Social e vino naturale si aspettavano a vicenda per esplodere come fenomeni?

Sembrerà strano, ma non sono la persona più adatta a cui fare questa domanda. Nel senso che, pur essendo presente da molti anni sui social, non sono molto affascinata dal loro meccanismo. Per molti versi, il vino per me non è particolarmente digital, ma si nutre ancora di una cosa preziosa: la socialità vera, vissuta e soprattutto bevuta. Vero, però, che trovando il giusto linguaggio i social possono aiutare a creare una comunità, una comunità che durante la recente pandemia ci ha salvato la vita!
Da subito ho vissuto Instagram in particolare come una vetrina, un modo per farmi conoscere, e attraverso il mio profilo riesco a comunicare il vino che bevo e soprattutto in cui credo. Attraverso post e stories posso dare visibilità a piccole realtà che altrimenti non riuscirebbero mai a trovare il proprio spazio. Inoltre, non ho mai abbandonato Facebook, dove ancora oggi faccio parte di una piccola community di appassionati e dove vedo una tendenza all’approfondimento maggiore che altrove. Infine, avendo superato i trent’anni, non credo che diventerò mai una tiktoker, anche se fenomeni come “i balletti in vigna” della cantina valtellinese Barbacàn insegnano che basta trovare un linguaggio e ogni social può prestarsi anche al vino, quindi mai direi mai.
In generale, sono grata ai social, non potrebbe essere altrimenti, ma non ne apprezzo la velocità e il loro spingerci a consumare per dimenticare: io preferisco che i contenuti restino, creino memoria, siano sempre consultabili, revisionabili, criticabili. Non a caso ho scelto di aprire un blog dove poter pubblicare contenuti più lunghi, di cui io fossi proprietaria e che fossero sempre reperibili da parte di un pubblico curioso.

Parto con il mio primo dubbio sul linguaggio intorno al vino naturale. Nella abusata (forse forzata?) dicotomia “Naturale vs Industriale” non mi convince la parola “industriale”, non ci rientra una grande quantità di vignaioli che stimo. Se uno non è naturale è per forza industriale (o “convenzionale”)? Possibile che nel dibattito in corso si debba semplificare così radicalmente, perdendo di vista la misura delle cose?

Andiamo per gradi. Se uno non è naturale è per forza industriale? La risposta è assolutamente no, si può essere convenzionali in molti modi, anche operando in regime biologico in campagna, ad esempio. C’è molta confusione in chi legge e in chi beve, me ne accorgo ogni giorno stando al bancone di Vinoir, locale che per primo ha lavorato per la divulgazione della filosofia del vino naturale nella mia città di adozione, Milano. Nel dibattito in corso, quindi, è urgente chiarire alcuni punti cardine che determinano un vino naturale come tale, diverso dal vino biologico, convenzionale, e infine dal suo “contrario”, ovvero il vino industriale. Sebbene un disciplinare condiviso sulla produzione del vino naturale non esista, siamo tutti d’accordo che un vino per far parte di questa categoria deve innanzitutto derivare da una fermentazione spontanea a temperatura non controllata delle uve, ovvero innescata dai lieviti naturalmente presenti sulla buccia dell’uva e non quelli di sintesi, che sono utilizzati nel convenzionale (nella versione “biologica” per chi vuole produrre vino convenzionale biologico).
Inoltre, nel vino naturale ci sono un prima e un dopo la fermentazione. Un prima che prevede una gestione non interventista della vigna al fine di coltivare uva viva, i cui lieviti spontanei siano appunto belli in forma per innescare la fermentazione. E un dopo, in cantina, dove nessun additivo è ammesso, a eccezione della solforosa come conservante, sebbene tutti i produttori cerchino di limitarla e alcuni addirittura di eliminarla (in tal caso in etichetta si troverà la dicitura “senza solfiti aggiunti”, perché, come molti sanno, una piccola quantità di solfiti non di sintesi è presente sull’acino stesso, e quindi il vino “senza solfiti” non esiste).
Insomma, se il vino convenzionale può essere costruito in minore o maggior misura da un ventaglio pressoché infinito di aiuti enologici a definirne struttura, colore, acidità e via dicendo (questo anche nel mondo del vino biologico, che deriva solo da una agricoltura biologica, ma che può essere modificato tanto quanto quello convenzionale), il vino naturale è quello che era l’uva, con in mezzo la capacità umana di accompagnarne la trasformazione senza intervenire. E sebbene possa sembrare più facile, è invece molto difficile ottenere uve perfette di cui fidarsi ciecamente in fermentazione, e il vignaiolo naturale mette molto a rischio la propria annata rinunciando a tutti gli aiuti di sintesi. Quindi, per riprendere la tua domanda, sì, esiste una misura delle cose, secondo me travasi e piccole aggiunte di solforosa per ottenere un vino buono sono ammissibili, ma su alcuni punti non si può prescindere, e metterli in chiaro aiuta il consumatore a orientarsi in quella che oggi ha tutta l’aria di una giungla di informazioni fuorvianti strumentalizzate dal marketing e dalla moda, a discapito del duro lavoro vero in campagna.

Veniamo al nodo “chimica”. Ricordo un momento iconico, quando Striscia la notizia tentò di creare un polverone sfruttando la notorietà di Ferran Adrià, lanciando una crociata contro l’uso della chimica in cucina. E Ferran con la sua voce roca, incazzato come una biscia, sbottò: «Todo es química! El azúcar es química, la sal es química!». Ho ricordato questo perché spessissimo si sente ripetere in ambito bio o biodinamico: “Niente chimica né in vigna né in cantina”. È una frase usatissima, ma che nasconde una semplificazione paradossale. Tutto è chimica. Dal solfato di rame all’acqua e alla terra, tutto è chimica. Eppure, spessissimo (e secondo me volentieri) si omette la locuzione “di sintesi”, che completerebbe l’espressione rendendola più corretta tecnicamente (ma meno mediatica). Tu che ne pensi di questa demonizzazione della parola “chimica”?

Ha ragione Ferran Adrià! La vita è chimica, ed è chimica il processo fermentativo che trasforma lo zucchero in alcol, così come quello che trasforma l’acido malico in acido lattico, come sono chimici i solfiti sulla buccia, e potremmo allungare ancora l’elenco. Tutto è chimica.
Eppure, uno degli slogan che gira nel mondo del vino naturale è “Chemical Wine is Over”. Quindi? Di nuovo torniamo a quanto sia necessario fare chiarezza, usare i termini giusti. Additivo – sostantivo – , di sintesi – aggettivo – : il vino naturale è privo di qualsiasi additivo chimico di sintesi. Nessuna industria chimica è stata coinvolta nella produzione di vino naturale. Non è quindi stato utilizzato petrolio, consumata energia, emessa CO2 per produrre additivi di sintesi, perché tutta la chimica che serve al vino naturale, ed è tantissima, è già a disposizione in azienda, nel vigneto, sull’acino. Questa è sostenibilità, questo è il cambio di paradigma a cui dobbiamo abituarci per provare ad aiutare un pianeta in difficoltà.

Eccoci alla questione centrale di tutto il discorso naturale: qual è secondo te il punto di forza del vino naturale dal lato ambientale?

Penso di avere già un po’ anticipato la risposta. Gli aspetti “ambientalisti” del vino naturale sono due, e sono interconnessi. Da un lato la produzione naturale non si serve dell’industria, e quindi ha un impatto minore sul territorio in termini di consumo di materie prime e di emissioni.
Dall’altro, il vino naturale “si serve” (e quindi tutela) di un ambiente quanto più sano possibile. Mi spiego meglio: se tratto un vigneto con pesticidi ed erbicidi di sintesi non solo ne uccido la biodiversità, ma otterrò un’uva “sterile” dal punto di vista fermentativo, perché nessun lievito sarà sopravvissuto sulla sua buccia. L’agricoltura naturale produce uva viva, che fermenta e che diventa vino sano, e per farlo deve occuparsi non soltanto del vigneto, ma anche dell’ambiente in cui è immerso, della salubrità dell’acqua e del suolo. Quindi oggi il vino naturale ha il ruolo di ricucire quello strappo tra il mondo agricolo e l’essere umano come suo abitante, rieduca l’uomo a sentirsi parte integrante di un ecosistema da proteggere e da sostenere, e non da modificare (pensiamo agli OGM) e sfruttare – i verbi che hanno dominato la rivoluzione agricola del secondo dopoguerra.
Che poi, si intenda, non si tratta solo di vino, ma della produzione non interventista di qualsiasi prodotto agricolo, dall’orto ai formaggi, alla carne. Senza questi produttori coscienziosi e i loro consumatori consapevoli temo che ci si possa solo avviare verso una lenta intossicazione e autodistruzione.

Lavorare in modo naturale comporta solo un miglioramento sul lato produttivo o il vino naturale può essere anche un faro “filosofico” che influisce sulle abitudini di vita di chi lo fruisce?

Dico spesso che bere vino naturale non è solo una questione di gusto, ma anche una questione di gesto. Cosa intendo? Che io bevo solo vino naturale perché ormai è il gusto che preferisco, ma anche perché – e qui cito un altro carissimo amico, oste a Milano – “con quel bicchiere sto contribuendo al sostentamento di una realtà che produce in una maniera sostenibile e attenta, e quindi, in ultima analisi, con il mio acquisto sto partecipando alla tutela di un paesaggio”. Una forma di adozione a distanza di ciò che abbiamo di più caro: il nostro pianeta e la sua natura. Quindi sì, c’è un aspetto fortemente filosofico e sociologico nella scelta del consumo di vino naturale, è la scelta di intraprendere una rieducazione umana per divenire cittadini e consumatori migliori. Un gusto e un gesto che oggi si manifestano bene nel movimento del vino naturale, ma che, ribadisco ancora, non possono e non devono fermarsi al vino, ma includere ogni prodotto agricolo di cui ci nutriamo.

Il rischio della moda. Sono rimasto colpito da un video di un’azienda che irrorava il preparato biodinamico 501 con un serbatoio da 1000 litri a bordo del trattore, con un meccanismo automatico che riproduceva l’alternanza sinistra-destra dell’irrorazione fatta a spalla. Qui, secondo me, c’è un paradosso di fondo. Non c’è il rischio che il naturale o il biodinamico diventino un bollino che serve a vendere il vino a prezzi più alti dimenticandone le ragioni di fondo? Come si fa a distinguere narrazioni artificiose da un sincero impegno etico?

Ottima domanda, grazie: eccome se c’è un paradosso! Come si può pensare che faccia bene il 501 mentre consumo centinaia di litri di benzina per cospargerlo? Ma la moda sa fare questo: bendare gli occhi, ammaliare e sedurre con favole e scarsa informazione. E non si può negare che oggi la moda nel mondo del vino naturale stia giocando un ruolo importante.
Eppure, non credo che la strada giusta sia quella di demonizzare la moda e di chiudersi nella propria torre d’avorio. Ne parlavo proprio con Christine Marzani, l’organizzatrice della prima fiera di vino naturale in Italia: Vini di Vignaioli. Mi raccontava come nelle prime edizioni a Fornovo si ritrovavano non più di 20 produttori, di cui 10 francesi: «Ben venga la moda», mi ha detto, «se oggi i produttori sono 200 e ce ne sono altrettanti in lista d’attesa per partecipare!».
Gioco-set-match! Il punto è proprio il fatto che non ci si può lamentare sempre. Lamentarsi prima perché nessuno partecipa, lamentarsi oggi – soprattutto prima del Covid – perché ci sono troppe fiere. Ho avuto conferma da grandi personalità, come quella di Christine, e da tanti produttori e comunicatori del vino naturale che la vittoria sta nell’indirizzare la moda e nell’utilizzarla nel migliore dei modi.
Prenderò ad esempio la mia vita quotidiana. Oggi nell’enoteca in cui lavoro ci sono molti più clienti rispetto a dieci anni fa, quando ha aperto, e questo grazie anche (non solo) alla moda. È ruolo dell’oste, secondo me, contestualizzare il vino naturale in un pensiero etico e filosofico, spiegare che non è solo “figo”, ma etico e necessario per l’ambiente. I famosi gusto e gesto di cui parlavo prima.
E rubo un minuto di questa intervista per una riflessione a cui tengo. L’oste, ecco a chi è affidato il ruolo di distinguere le narrazioni artificiose da un impegno sincero. L’oste, per me, è quell’ultimo anello di congiunzione tra l’agricoltura sostenibile e il consumatore consapevole: in assenza di disciplinari chiari, degli ingredienti in etichetta, ecc., l’oste è l’unico punto di riferimento a cui affidarsi.

Nello scorso aprile c’è stato un intervento denso di spunti sul vino naturale: il manifesto La forma e la sostanza, le luci e le ombre, di Paolo Vodopivec e Sandro Sangiorgi (leggibile, insieme alla affilata critica che ne fa Jacopo Cossater, su Intravino). Nel testo, a un certo punto si dice: “Stiamo passando al paradosso mostruoso di chi considera la competenza tecnica un ostacolo alla realizzazione del liquido odoroso, quasi che meno si sa e meglio si riesce. C’è un lassismo del tutto immotivato nei confronti della relazione tra forma e sostanza, c’è una diffusa indulgenza che sdogana liquidi imbevibili”. Ci trovi del vero in questa critica “interna” al mondo del vino naturale o pensi che sia una riflessione tardiva e superata dai fatti?

Paolo, tocchi ancora punti cruciali del dibattito sul vino naturale. È stato molto interessante leggere il nuovo manifesto di Vini Veri (proprio la fiera che mi ha aperto gli occhi su questo mondo, come dicevo) firmato da Sandro, penna sublime, comunicatore colto e appassionato, per me un maestro, e da Vodopivec, grande interprete del Carso.
Leggendo ho pensato che da un lato il manifesto poneva l’attenzione su un aspetto del vino naturale – la sua qualità, la sua sostanza – che “da dentro” sembrava superato, ma forse non lo era poi così tanto. Dall’altro ho avuto paura delle strumentalizzazioni che quelle parole sincere e accorate avrebbero potuto subire dai “detrattori” del naturale.
I commenti che ho notato nei giorni successivi alla pubblicazione mi hanno confermato entrambe le suggestioni. Ho letto frasi come “il vino naturale può fare male”, “la vigna in natura non esiste”. Frasi che ritengo errate e che pensavo superate, e che invece richiamano l’attenzione sul fatto che la moda, di cui parlavamo prima, ha dato slancio al movimento del vino naturale – ora lo si beve molto molto di più rispetto a qualche anno fa – ma questo non coincide con il fatto che il vino naturale sia stato capito.
Colgo quindi questa occasione per sottoscrivere tutto di quanto detto da Sangiorgi-Vodopivec, il vino naturale non può e non deve prescindere dalla consapevolezza, dallo studio, dalla cura. Ma mi permetto di aggiungere, citando Veronelli, che “il peggior vino del contadino sarà sempre più buono del miglior vino industriale”: anche se ancora rudimentale e sgraziato, preferirò sempre una bottiglia di vino artigianale che tutela un paesaggio a un vino che ha sfruttato la chimica per esistere.
Come distinguere dunque il vero vino buono o sano? Torno alla figura dell’oste, che mi appartiene oltre a quella di comunicatrice: è la sua costante ricerca, degustazione, critica a permettere al solo vino naturale di qualità di emergere.
E infine aggiungo che la lettura del manifesto mi ha spinto a un’ulteriore riflessione. Si deve lavorare in squadra: osti, comunicatori e produttori dovranno sempre di più organizzare occasioni di confronto e di scambio, affinché il vino del contadino, magari con i suoi difetti, trovi sempre di più la strada della forma e della sostanza. Insieme.

Il rapporto città-piccoli centri: mediaticamente il vino naturale è nato come un trend urbano, fruito e cercato soprattutto nelle enoteche dei grandi centri. E paradossalmente ha avuto poca attenzione soprattutto nei luoghi dove viene prodotto. È ancora così? Quali dinamiche vedi all’orizzonte?

Sono appena tornata dalla bellissima fiera Teruar organizzata a Scicli, piccolo comune del ragusano, 25.000 abitanti e decine di botteghe e ristoranti con mescita naturale. Ecco, questo è ciò che vorrei vedere all’orizzonte. Non siamo ancora arrivati alla quadratura del cerchio sotto due aspetti. Uno è quello appunto dell’urbanizzazione: il vino naturale che viene dalla campagna deve tornare in campagna, e per farlo ancora una volta sottolineo il ruolo della comunicazione e quello degli osti coraggiosi che scelgono di aprire locali “naturali” in remoti borghi italiani facendosi carico di rischi maggiori, ma con la consapevolezza quasi apostolica di quanto sia urgente e necessario. L’altro, colgo l’occasione, è quello del prezzo: il vino naturale – come qualsiasi altro prodotto da agricoltura sostenibile – oggi è un prodotto più caro del normale, e dunque elitario. Le due questioni sono strettamente interconnesse. In un orizzonte ideale, infatti, se si riuscirà a de-urbanizzare il vino naturale (con quindi riduzione di costi “cittadini”, come il trasporto e l’affitto di location) e tornare ad acquistare prodotti agricoli sani là dove vengono prodotti, allora anche il loro prezzo calerà significativamente. Casi come quello di Scicli mi dimostrano che non è un sogno irrealizzabile e che, se contestualizzato e spiegato, un vino a 6-7 euro la bottiglia ha un mercato in un mondo dove ne spediamo 1000 per un telefonino. Si tratta di fare delle scelte e di capire perché le si fa.

Alcune zone dell’enologia italiana sono state storicamente delle culle per metodologie che oggi sono basilari nel mondo dei vini naturali: penso al Friuli, con la pratica della macerazione sulle bucce dei bianchi, o l’Emilia per la rifermentazione in bottiglia. Entrambe le pratiche sono state elette come distintive per il mondo dei vini naturali, estrapolate e riproposte in ogni luogo, in ogni situazione. Oggi sono migliaia le etichette di rifermentati (o pet-nat, che fa più figo) e di macerati, ma spesso senza una storia alle spalle. È il metodo che prende il sopravvento sulla storia e sul terroir? Sono iperboli di giovinezza che verranno composti in un quadro più armonico con il passare del tempo (come è stato il fenomeno dell’uso del legno dagli anni Novanta a oggi)?

Il vino naturale è inserito, come ogni prodotto, in un mercato globale ed è influenzato obbligatoriamente dal gusto del consumatore. In passato si cercavano struttura e concentrazione, ora freschezza e acidità: il rischio concreto che osservo è quello di una nuova versione di “parkerizzazione”.
Quindi credo, citando Orazio, che “est modus in rebus”. Ovvero c’è una misura per tutte le cose, va bene secondo me innovare un po’ il proprio modo di fare vino, magari lasciandosi contaminare da stili e filosofie di altri territori e di altri produttori, ma rimanendo sempre fedeli al proprio terroir. Terroir, un concetto complesso, intraducibile in italiano, che al suo interno amalgama tre aspetti essenziali: territorio, clima e uomo.
Il vino naturale che io amo e scelgo di bere rispetta sempre questi tre aspetti: è frutto di un territorio sano, cambierà di anno in anno in base al clima e infine rispecchierà le esperienze e le inclinazioni di chi lo fa (come il cane, anche il vino per me assomiglia al padrone!). Quindi, per me, massima libertà nel produrre sperimentando e innovando, se si ha sempre a cuore la propria identità umana e territoriale. Quando apro una bottiglia voglio sempre che mi racconti una storia, la sua storia, ma se la storia fosse sempre la stessa finiremmo per annoiarci, no?

Mi viene in mente il fenomeno dei rifermentati naturali dei Colli Piacentini: prima erano i vini della tradizione, avevano un mercato principalmente locale e sfuso a prezzi bassi, mentre oggi sono l’avanguardia dei vini innovativi italiani, li puoi trovare a San Francisco e a Berlino, forse più facilmente che in centro a Piacenza. Ma in realtà loro sono rimasti ancorati alla loro storia. Ecco, in questo caso non ce la faccio a chiamarli “vini naturali” tout court. Per me sono “vini classici”. È il mondo che si è spostato intorno a loro, non loro che si sono modificati. È una bella case history. Tu che ne pensi?

Sì, il territorio dei Colli Piacentini riassume molto bene diversi punti che abbiamo toccato in questa chiacchierata. Penso che, come dicevo prima, sia un territorio che, con l’impegno di alcune cantine e di grandi vinificatori, ha saputo fare scuola e squadra, permettendo a un vino dimenticato di ritrovare il proprio spazio. Uno spazio che ha saputo conquistare tutti, e ora la Val Tidone, la Val Trebbia, Travo sono luoghi che richiamano un pubblico appassionato da ogni parte del mondo, sono luoghi periferici che non sono finiti per essere dimenticati, ma godono di una nuova vita grazie alla verità e alla passione di chi abita in quelle zone. Infine, è vero che, come dici, si tratta di “vini classici”, perché da quelle parti il vino si è sempre fatto così naturalmente frizzante (sottotitolo della fiera Emilia Sur lì, che ogni anno si impegna nella promozione dei frizzanti emiliani), eppure non dimentichiamo che solo negli ultimi dieci anni abbiamo ri-preso coscienza della loro classicità, dopo avere bevuto per anni Ortrugo spumantizzato con il metodo Martinotti in autoclave e addizionato di zucchero, perché, ragazzi, l’Ortrugo è troppo acido! Quindi parlerei di una riscoperta classicità a partire da persone che quando tutto sembrava perduto e le chiavi della campagna erano state consegnate all’industria enologica, hanno saputo resistere, guardare oltre, sognare.

Credo che la svolta del successo del vino italiano passi attraverso la presa di coscienza che sia i produttori, sia i comunicatori del vino non parlano solo di un liquido alcolico bianco o rosso, ma raccontano un mondo di saperi, di paesaggi e di persone. Ti senti investita di questa responsabilità?

Mi sento parte di un gruppo, di un movimento, e come tale ogni giorno (lavoro permettendo!) sul mio blog cerco solo di dare il mio contributo. Leggo, assaggio, mi informo, viaggio e racconto quello che mi ha emozionato, cercando di emozionare a mia volta. C’è senso di responsabilità, ma c’è soprattutto il senso della grande urgenza di parlare e comunicare un nuovo modo di vivere, gustare e ragionare. A settembre saranno cinque anni da quando è nata lasecondadolescenza, non ci posso credere! Sono contenta di questo risultato, ma per indole guardo sempre oltre, ad esempio alla creazione di una rete di “inviati” locali – osti, produttori, appassionati – che mi aiutino a raccontare sul blog quanto avviene dove non posso arrivare. Penso che lasecondadolescenza stessa abbia bisogno di fare squadra.

Sai che ti dico? A forza di parlare di paesaggio e di Colli Piacentini ho deciso di fare un viaggio, da Milano verso Castell’Arquato. E lo voglio fare a una velocità che mi permetta di godere di tutto, metro per metro: in bici. Alla ricerca di racconti di territorio e di vini naturali, salendo dalla pianura verso le colline, attraverso vigne, strade bianche, valli e fiumi. Che ne dici, ne riparliamo?

Sono una grande fan degli itinerari italiani, il nostro paese a ogni curva cambia volto, si arricchisce, si modifica, e modifica anche chi abbia il giusto ritmo (la bici è perfetta!) per lasciarsi contaminare da odori, sapori, strette di mano, abbracci. Quindi eccome se ne riparliamo, non sono una super atleta, ma posso provare a starti dietro… nel peggiore dei casi mi stacchi e ci vediamo in osteria!

 

Grazie di cuore a Maria Elena per la disponibilità e le riflessioni ricche di spunti. L’idea del viaggio verso i Colli Piacentini è nata come parte integrante di questa riflessione sui vini naturali, e avrà sbocco in alcuni articoli-resoconto futuri che verrano pubblicati qui su l’AcquaBuona.

Maria Elena Boggio
Blog: https://www.lasecondadolescenza.it/
Profilo Instagram: @lasecondadolescenza
Le foto sono state gentilmente fornite da Maria Elena Boggio

 

 

 

 

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

3 COMMENTS

  1. Cari Maria e Paolo, bell’articolo stimolante e interessante, che mostra ampia conoscenza del mondo del vino naturale ma che riflette un po’ di quella confusione che lo stesso articolo stigmatizza. La naturalità verso la quale noi tutti miriamo è comunque quella addomesticata dall’uomo, e se Ferran Adrià giustamente diceva che tutto è chimica possiamo aggiungere che anche il nostro Gino Veronelli diceva che l’esito naturale della fermentazione dell’uva è l’aceto. Quindi “accompagnare l’uva senza intervenire” sembra un po’ una approssimazione. Approsimazioni e semplificazioni che vanno evitate anche quando si parla leggeri. Un approfodimento scientifico serve sempre per evitare di comunicare cose sbagliate, come ad esempio che la solforosa sia contenuta nell’acino o che i lieviti selezionati siano “sintetici”. La solforosa viene prodotta nella fermentazione e il suo livello dipende proprio dal lievito, quindi un lievito “naturale” potrebbe addirittura darci una solforosa più alta. Andando così a braccio potremmo poi dire che le viti stesse sono “sintetiche”, visto che sono state selezionate dall’uomo nei secoli per dare un prodotto salubre, abbondante e gradevole. E potremmo aggiungere che il solfato di rame stesso è “sintetico”, dato che non proviene certo da riserve naturali. E’ compito di tutti aumentare la propria consapevolezza, altrimenti non si fa onore a chi lavora in vigna e in cantina, con dedizione e visione razionale del processo.

  2. Salute, grazie del suo commento..
    Potrei chieder per quale reazione e un lievito naturale potrebbe produrre una solforosa maggiore nel vino?
    Grazie in anticipo…
    MC

  3. Gentile Massimo, durante la fermentazione alcolica i lieviti producono naturalmente anidride solforosa (SO2) come
    intermedio metabolico nella riduzione dei solfati (Romano e Suzzi (1993), Ribéreau-Gayon et al., (2006)). I ceppi di lieviti si possono classificare in basso produttori di SO2 (ad esempio il Saccharomyces cerevisiae var. ellipsoideus) e in alto produttori (come il Saccharomyces bayanus Sacardo). Certi ceppi di lieviti possono produrre fino a 300 mg/L solfiti durante la fermentazione.

    Dott e Trüper (1976) hanno inoltre mostrato che la solfito reduttasi dei ceppi di lieviti che producono solfiti potrebbe essere alterata. Come conseguenza i solfiti (SO2) si accumuleranno nella cellula e infine potranno essere rilasciati nel mosto. Ulteriori evidenze sulle mutazioni come possibile spiegazione per la produzione dei solfiti non sono state confermate.

    Oggi i produttori di lievito disidratato considerano questa importante proprietà del lievito durante il processo di selezione. La maggior parte dei ceppi di lievito oggi in commercio si possono considerare dei basso produttori di SO2, visto che producono fino a 20 mg/L di SO2 totale. Solo pochi ceppi sembrano avere una produzione più alta (fino a 80 mg/L di SO2). Se però il produttore di vino vuole indurre una fermentazione spontanea, non c’è garanzia sulle proprietà del lievito, e quindi potrebbe incappare in una varietà che produce più solforosa rispetto a un lievito selezionato.

    Estratto da CODICE DI BUONE PRATICHE PER LA VITICOLTURA E L’ENOLOGIA BIOLOGICA, EU FP6 STRIP project ORWINE

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